La macchina finalmente percorre una strada larga, asfaltata di recente, senza buche. Destinazione Kokoubou, zona al centro Nord del Benin, conosciuta per la produzione del burro di karité e per la presenza del monastero Notre Dame de Kokoubou fondato nel 1972 dall’ordine di monaci cistercensi di stretta regola.
Lasciato l’asfalto, ci immettiamo su una pista e dopo pochi chilometri si scorge la chiesa. Ci fermiamo sotto un folto albero di karité; su di esso è affisso un cartello: “sonnez ici” (suonate qui), al ramo accanto un vecchio cerchio di ferro di una ruota di macchina con una bacchetta attaccata ad una corda, è il citofono del monastero. A fungere da ingresso e sala di accoglienza é un piccolo edificio a forma di “une petit Tatà” un piccolo Tatasomba, costruzione tipica in terra cruda del Nord, con dentro dei tavolini e degli sgabelli per l’attesa e il ristoro dei viandanti. Suoniamo, dopo pochi minuti arriva ad accoglierci un monaco yovo (bianco), a primo acchito schivo, riservato, con tono di voce bassissimo perché operato alle corde vocali: père Jean.
Ci accompagna a visitare il monastero. È a piedi nudi. Anche in questo angolo di mondo i monaci hanno scelto un luogo ottimale per costruire la loro dimora: terreno fertile, abbondanza di acqua, buona esposizione. Per il loro sostentamento svolgono diverse attività, allevamento di galline, polli e capre, agricoltura, apicoltura e fitoterapia, grazie alla presenza di una decina di arnie, preparazione di sciroppi a base di frutti colti dai loro alberi, accoglienza dei pellegrini in una zona esclusivamente organizzata come foresteria, dotata di tutti i servizi necessari.
Terminata la visita del monastero, interrotta da qualche momento nel quale il Padre sale su di un grosso trattore. Una volta sceso chiediamo a père Jean di accompagnarci nei villaggi limitrofi, dove viene prodotto il burro di karité. È a piedi nudi! Chi l’avrebbe mai detto che in piena Africa avremmo trovato la tipica spiritualità certosina! Certo, attorno a noi non ci sono le costruzioni cistercensi che verso la fine del X secolo hanno caratterizzato tutti i monasteri con un’architettura tipica tra il romanico ed il gotico. L’idea base di questo tipo di edilizia, come sappiamo dagli storici dell’arte, è la concentrazione per l’enucleazione del puro essenziale e dunque del nudo rigore dell’ossatura portante e planimetrica. Praticamente, il romanico viene potato fino all’essenziale, dando vita così lentamente nel corso dei decenni successivi all’ossatura portante dello stile gotico. Nonostante la differenza stilistica delle costruzioni, anche qui tutto è costruito badando all’essenzialità della forma sia esterna che interna. Soprattutto ciò che caratterizza ogni monastero cistercense è un profondo silenzio, che quotidianamente nutre preghiera e lavoro. Un silenzio pieno di una Presenza, quella di Dio, che continua a comunicare attraverso “il sussurro di una brezza leggera”(1Re 19,12). Anche noi ci nutriamo di questo silenzio e questa preghiera impressi anche nel volto sempre sorridente di père Jean, uno dei cofondatori di questo splendido luogo sorto agli inizi degli anni settanta e secondo priore dello stesso monastero. Il suo volto è scavato dalle rughe, grossi calli segnano le sue mani ed i suoi piedi, la sua è una presenza leggera cammina spedito, sicuro dei suoi passi, convinto delle sue scelte, perfettamente integrato con il luogo in cui abita, con le persone e gli animali, anche i grossi pipistrelli che dormono appesi di giorno agli enormi alberi di mango carichi di frutti e che si spostano da una albero all’altro mentre noi vi passiamo sotto. È il miracolo della preghiera che si fa lavoro, ospitalità, cura ed attenzione ad ogni voto. Non c’è distinzione di razza, cultura religione, solo fraternità.
Arriviamo in un primo villaggio, dove abbiamo un incontro più unico che speciale: François, un ragazzo paralizzato dalla vita in giù da circa 12 anni. Ha avuto un incidente all’età di 8 anni e da allora si ritrova su una sedia a rotelle con il suo sorriso avorio, penetrante, rasserenante. Sulle gambe ha un libro di catechismo cattolico; legge tanto François, è una delle poche cose che può fare da solo. Un sorriso rasserenante…per un attimo ci siamo sentiti “nudi” difronte a quel sorriso, spogliati di tutte le nostre certezze: un ragazzo che dovrà vivere paralizzato per tutta la vita, in un villaggio di case di terra, alla fine del mondo, mi rasserena. Avremmo dovuto essere noi a confortarlo e invece gli rimaniamo accanto immobili, non riuscendo a far altro che a godere di quel sorriso.
A père Jean lo conoscono tutti! Tutti lo salutano, gli raccontano la loro giornata, i loro affanni e i loro malanni, lo invitano nelle loro case, come se fosse il parente più stretto. Osservo quest’uomo esile esile, che si muove tra le case di terra come se ne conoscesse ogni singolo granello. Osservo il suo sguardo benevolo e paterno su quello che ormai da 45 anni è il suo popolo e mi ricorda San Benedetto, sapientemente descritto dalla penna di Andrea Pamparana: “Ha spesso l’aria severa, ma il tono è caldo, profondo, sussurrato. È un uomo abituato al silenzio, al colloquio intimo, alla semplicità di chi sa tutto e deve insegnare a chi non sa nulla. Parla piano; poche, chiare e fresche parole, ma ti guarda negli occhi e ti scruta nell’anima leggendo i tuoi pensieri come fossero stampati su carta bianca. Sa sorridere, se necessario, sa ridere. È severo, ma come ogni buon padre comprensivo. È mite perché non considera necessaria la collera, ma non remissivo.”
Continuiamo la nostra strada verso un villaggio Peul, etnia nomade che si occupa prevalentemente di pastorizia. La pista che seguiamo è circondata da alberi di mango e di karité, père Jean ci fa da guida, mostrandoci una scuola in costruzione, che i monaci hanno finanziato per i bambini dei villaggi vicini. È a piedi nudi!
I Peul hanno un particolare senso della bellezza, dell’armonia delle forme. Il loro villaggio è lo specchio del loro essere: non c’è traccia di spazzatura, gli edifici sono organizzati ordinatamente in base alle loro funzioni. Al centro c’è il focolare per la preparazione dei cibi, attorno al quale si riuniscono le donne, un po’ più decentrato il pergolato con le stuoie adagiate sulla terra, dove si ritrovano gli uomini, intorno le abitazioni, ognuna con il proprio granaio.
Père Jean è di casa anche qui, tutti gli stringono la mano, un ragazzo morso da uno scorpione gli chiede il medicamento con la pietra nera, una famiglia lo invita nella loro casa per far visita all’ultima arrivata da solo sei giorni. Noi non rimaniamo un passo indietro, siamo con père Jean, dunque siamo suoi amici e ci è riservata la stessa accoglienza.
Si avvicina l’ora della preghiera delle 12, è ora di tornare al monastero. Père Jean ci precede, la schiena ricurva, le spalle bruciacchiate dal sole. È a piedi nudi!
I suoi piedi sono sempre e da sempre nudi, non sentono più né sabbia, né asfalto, né caldo, né pioggia, né spine, né rami; sono un tutt’uno con la terra. Si, un tutt’uno con questa terra d’Africa che ha deciso di abbracciare stretta a sè da quasi mezzo secolo e di curare con benevolenza paterna. Dovremmo metterci tutti a piedi nudi per sentire il calore della terra che accoglie la nostra umanità e fare in modo che ci attraversi fino nel profondo; per essere liberi di percorrere le strade del mondo e farci più prossimi del nostro prossimo.
La stessa cura riservata agli ospiti: “Tutti gli ospiti che arrivano, siano ricevuti come se fosse Cristo Signore; poiché egli dirà un giorno: Fui ospite, e voi mi riceveste. — Ed a tutti sia reso conveniente onore, ma molto più a quelli della nostra stessa Fede e ai pellegrini.” ( Regola di San Benedetto, CAP. 53). Siamo serviti per il pranzo prima dei monaci, con tutte le accortezze del caso, dalla preparazione della tavola alla genuinità e squisitezza dei cibi. In questo luogo dalla potenza indescrivibile, dall’incanto di una natura inalterata, dalla spiritualità viva e pervasiva, oltre al corpo, soprattutto l’anima ritrova la sua dimensione e si ristora.
Il nostro viaggio deve ricominciare. Père Jean ci ringrazia della nostra presenza, del nostro impegno e ci riaccompagna all’ingresso. È a piedi nudi!